“Elogio dell’antropologia” è il titolo con cui è stata tradotta in italiano la lezione inaugurale pronunciata da Lévi-Strauss al Collège de France il 5 gennaio 1960, quando gli venne ufficialmente affidata la cattedra di antropologia sociale. Stampata per la prima volta nell'annuario interno del Collège de France (collana di lezioni inaugurali n. 31), è stata poi ripubblicata con il titolo “Le champ de l’anthropologie”in Antropologia structurale deux, Paris, Plon 1973, pp. 11-44.
Elogio dell’antropologia
Claude Lévi-Strauss
Signor amministratore,
cari colleghi,
signore, signori,
Poco piú di un anno fa, nel 1958, il College de France ha voluto creare nel suo seno una cattedra di antropologia sociale. Questa scienza è troppo attenta alle forme di pensiero, che chiamiamo superstiziose quando le incontriamo fra noi, perché non mi sia consentito di rendere alle superstizione un omaggio preliminare; la particolarità dei miti, che nelle nostre ricerche occupano tanto posto, non è forse quella di evocare un passato abolito, e di applicarlo, come un cifrario, alla dimensione del presente, al fine di svelarvi un senso in cui coincidano le due facce - quella storica e quella strutturale- che l'uomo vede della propria realtà? Mi sia dunque anche permesso, in questa occasione in cui tutti caratteri del mito si presentano riuniti, di procedere seguendo il suo esempio, cercando di discernere il senso, e la lezione, dell'onore che mi viene fatto, in alcuni avvenimenti passati; cosí, persino la data della vostra deliberazione attesta, miei cari colleghi - con ,il bizzarro ritorno della cifra 8, già illustrato dall'aritmetica di Pitagora dalla tavola periodica dei corpi chimici, e dalla legge di simmetria delle meduse - che la creazione di una cattedra di antropologia sociale, proposta nel 1958, rinnova una tradizione alla quale chi vi parla, anche se lo desiderasse, non avrebbe piú il potere di sfuggire.
Cinquant'anni prima della vostra decisione iniziale, Sir James George Frazer pronunciava, all'università di Liverpool, la lezione inaugurale della prima cattedra al mondo che fosse intitolata « di antropologia sociale ». Cinquant'anni prima - cioè un secolo fa - nascevano, nel 1858, due uomini - Franz Boas ed Emile Durkheim - di cui i posteri avrebbero detto che furono, se non i fondatori, almeno gli artefici che edificarono, l'uno in America, l'altro in Francia, l'antropologia quale noi oggi la conosciamo.
Non potevo esimermi dall'evocare qui questi tre anniversari, questi tre nomi. Quelli di Frazer e di Boas mi offrono l'occasione di mettere in evidenza, sia pur brevemente, tutto quello che l'antropologia sociale deve al pensiero angloamericano, e quello che io personalmente gli devo, poiché proprio in stretta unione con esso i miei primi lavori furono concepiti ed elaborati. Ma non bisognerà stupirsi se Durkheim occuperà un posto pii grande in questa lezione: egli incarna l'essenziale di quel che fu il contributo della Francia all'antropologia sociale, benché il suo centenario, celebrato con grande risalto in numerosi paesi stranieri, sia da noi passato quasi inosservato, e non sia stato ancora solennizzato da nessuna cerimonia ufficiale.
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Che cos’è dunque l’antropologia sociale?
Nessuno, mi sembra, è stato più vicino a definirla - benché solo per preterizione - di Ferdinand de Saussure, quando, presentando la linguistica come una parte di una scienza ancora da nascere, egli riserva a quest’ultima il nome di semiologia, e le attribuisce, come oggetto di studio, la vita dei segni in seno alla vita sociale. Lui stesso, d’altronde, non anticipava forse la nostra adesione, quando, per l’occasione, paragonava il linguaggio «alla scrittura, all’alfabeto dei sordomuti, ai riti simbolici, alle formule di cortesia, ai segnali militari, ecc.»? Nessuno contesterà che l’antropologia annoveri, nel proprio campo, almeno certuni di tali sistemi di segni, ai quali si aggiungono molti altri: linguaggio mitico, segni orali e gestuali di cui si compone il rituale, regole di matrimonio, sistemi di parentela, leggi consuetudinarie, talune modalità degli scambi economici.
Intendiamo quindi l’antropologia come l’occupante in buona fede in quel campo della semiologia che la linguistica non ha ancora rivendicato come proprio; e in attesa che, almeno per certi settori di questo campo, non si costituiscano scienze speciali all’interno dell’antropologia.
Occorre però precisare la definizione che abbiamo dato in due maniere.
Anzitutto, ci affretteremo a riconoscere che alcuni fatti che abbiamo appena citato sono pure di competenza di scienze particolari: economia, diritto, scienza politica. Tuttavia, queste discipline considerano soprattutto i fatti che sono più vicini a noi, e quindi che presentano per noi un interesse privilegiato. Diciamo che l’antropologia sociale li considera, sia nelle loro manifestazioni più lontane, sia nella prospettiva della loro espressione più generale. Da quest’ultimo punto di vista, essa non può fare niente di utile, senza collaborare intimamente con le scienze sociali particolari; ma queste ultime, dal canto loro, non potrebbero pretendere alla generalità, se non grazie al concorso dell’antropologo, il solo che sia capace di allegar loro verifiche e inventari cercando di renderli completi.
La seconda difficoltà è più seria; ci si può chiedere infatti se tutti i fenomeni, di cui l’antropologia sociale si interessa presentino davvero il carattere di segni. Ciò è abbastanza chiaro, per i problemi che studiamo più di frequente. Quando consideriamo un certo sistema di credenze - diciamo il totemismo - una certa forma di organizzazione sociale - clan unilineari, matrimonio bilaterale - il problema che ci poniamo è per l’appunto: «che significa tutto ciò?»; e, per rispondervi, ci sforziamo di tradurre, nel nostro linguaggio, regole primitivamente date in un linguaggio diverso.
Ma ciò vale anche per altri aspetti, della realtà sociale, quali l’attrezzatura, le tecniche, i modi di produzione e di consumo? Sembrerebbe che qui si abbia a che fare con oggetti, non con segni — dato che il segno, secondo la celebre definizione di Peirce, è «ciò che sostituisce qualcosa per qualcuno». Che cosa sostituisce dunque una ascia di pietra, e per chi?
L’obiezione è valida, fino a un certo punto e spiega la ripugnanza che alcuni provano ad ammettere, nel campo dell’antropologia sociale, fenomeni che dipendono da altre scienze, come la geografia e la tecnologia. Il termine di antropologia culturale è quindi opportuno per contraddistinguere questa parte dei nostri studi e per sottolinearne l’originalità.
Eppure, è ben noto - e l’averlo stabilito, d’accordo con Malinowski, fu uno dei titoli di gloria di Mauss - che, soprattutto nelle società di cui ci occupiamo, ma anche nelle altre, questi settori sono pregni di significato. Per tale aspetto, ci concernono già.
Infine, l’intenzione esauriente, che ispira le nostre ricerche, trasforma in assai larga misura l’oggetto. Certe tecniche prese isolatamente possono apparire come un dato assoluto, retaggio storico o risultato di un compromesso, fra i bisogni dell’uomo e le costrizioni dell’ambiente. Ma quando le situiamo nell’inventario generale delle società che l’antropologia si sforza di costituire, esse appaiono sotto una luce nuova, poiché le immaginiamo come l’equivalente di altrettante scelte, che ogni società sembra fare (espressione di comodo, che va spogliata del suo antropomorfismo), entro una data gamma di possibili di cui fisseremo l’elenco. In tal senso si capisce come un certo tipo di ascia di pietra possa essere un segno: in un contesto determinato, esso sostituisce, per l’osservatore capace di comprenderne l’uso, l’utensile diverso che un’altra società impiegherebbe con gli stessi fini.
Allora, anche le tecniche più semplici in una qualunque società primitiva assumono il carattere di un sistema, analizzabile nei termini di un sistema più generale. La maniera in cui certi elementi del sistema sono stati riuniti, e altri esclusi, permette di intendere il sistema locale come un insieme di scelte significative, compatibili o incompatibili con altre scelte, che ogni società, o ogni fase del suo sviluppo, si è vista indotta a operare.
Ponendo la natura simbolica del suo oggetto, l’antropologia sociale non intende dunque distaccarsi dai realia. Come lo potrebbe, dal momento che l’arte, in cui tutto è segno, si vale di tramiti materiali? Non è possibile studiare gli dei ignorando le loro immagini; i riti, senza analizzare gli oggetti e le sostanze che l’officiante fabbrica o manipola; le regole sociali, indipendentemente dalle cose che loro corrispondono. L’antropologia sociale non si rinchiude in una parte del campo dell’etnologia; non separa cultura materiale da cultura spirituale. Nella prospettiva che le è propria - e che dovremo situare - attribuisce loro lo stesso interesse. Gli uomini comunicano mediante simboli e segni; per l’antropologia che è una conversazione dell’uomo con l’uomo, tutto è simbolo e segno, posto come intermediario fra due soggetti.
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