Testo-chiave per la ricostruzione del rapporto Lévi-Strauss con la linguistica strutturale e la semiotica. Il saggio è la prefazione alle Six leçons sur le son et le sense, tenute da Roman Jakobson a l’Ecole libre des hautes études di New York nel 1943, le quali fornirono a Lévi-Strauss la chiave di accesso alla futura antropologia strutturale.
R. Jakobson e C. Lévi-Strauss,
Collège de France , 1972.
Un libro firmato da Roman Jakobson non ha bisogno di prefazione, ed io non mi sarei assunto l'onore di scriverne una se Jakobson stesso non avesse espresso il desiderio che io deponga qui la mia testimonianza di ascoltatore; ed anche, mi permetterò di aggiungere io, di discepolo. Infatti, queste lezioni vecchie di un terzo di secolo - che l'autore si decide finalmente a pubblicare dopo averne cosí spesso concepito il progetto, ogni volta ritardato da compiti piú urgenti - sono le prime che io gli abbia sentito enunciare alla Libera scuola di studi superiori di New York, in quell'anno 1942-43 in cui abbiamo cominciato a frequentare reciprocamente i nostri corsi.
Rileggendole adesso, il mio spirito ritrova l'eccitazione che aveva provato trentaquattro anni fa. A quel tempo, non sapevo pressoché nulla di linguistica, e il nome di Jakobson mi era sconosciuto. È stato Alexandre Koyré che me ne ha chiarito la statura e mi ha messo in rapporto con lui. Risentivo ancora il peso delle difficoltà che, per la mia inesperienza, avevo incontrato tre o quattro anni prima per notare correttamente lingue del Brasile centrale, e mi ripromisi di acquisire da Jakobson i rudimenti che mi mancavano. In realtà, il suo insegnamento mi donò ben altro, e (non occorre dirlo) ben di piú: la rivelazione della linguistica strutturale, grazie alla quale avrei potuto cristallizzare in un corpo di idee coerenti le fantasticherie che mi erano state ispirate ai primi di maggio 1940 dalla contemplazione dei fiori di campo dalle parti della frontiera lussemburghese, e i sentimenti ambigui, misti d'entusiasmo e d'esasperazione, che un po' piú tardi, a Montpellier - dove, per l'ultima volta nella mia vita, ho esercitato per breve tempo il mestiere di professore di filosofia - si erano destati in me alla lettura delle Catégories matrimoniales et relations de proximité dans la Chine ancienne di Marcel Granet, per via, da una parte, del tentativo che vi si manifestava di costituire fatti apparentemente arbitrari in un sistema, e dall'altra, dei risultati improbabilmente complicati a cui questo tentativo conduceva.
La linguistica strutturale mi avrebbe invece insegnato che, anziché lasciarsi confondere dalla molteplicità dei termini, è importante considerare le relazioni piú semplici e intelligibili che li uniscono. Ascoltando Jakobson, mi accorgevo che l'etnologia del XIX secolo, ed anche quella dell'inizio del XX, come la linguistica dei neogrammatici, si era accontentata di sostituire «problemi d'ordine strettamente causale ai problemi dei mezzi e dei fini» (p. 49). Senza mai descrivere veramente un fenomeno, ci si accontentava di rimandarlo alle sue origini (p. 25). In tal modo le due discipline si vedevano confrontate con «una pletora schiacciante di variazioni» quando la spiegazione deve sempre porsi come scopo di «mostrare le invarianti attraverso la varietà» (p. 29). Mutatis mutandis, ciò che Jakobson diceva della fonetica si adatta altrettanto bene all'etnologia: «È ben vero che la materia fonica del linguaggio è stata studiata a fondo, e che questi studi, soprattutto nel corso degli ultimi cinquant'anni, hanno dato risultati brillanti ed abbondanti; ma, nella maggior parte dei casi, i fenomeni in questione sono stati studiati astraendo dalla loro funzione. In queste condizioni, è stato impossibile classificare questi fenomeni, o addirittura capirli» (p. 40).
Per quanto riguarda i sistemi di parentela, che già fin da quell'anno 1942-43 erano il tema del mio corso, uomini come Van Wouden (di cui ancora non conoscevo l'opera) e Granet avevano avuto il merito di oltrepassare questo stadio, senza però sciogliersi dalla considerazione dei termini per elevarsi a quella delle relazioni fra loro. Poiché per questa via non potevano spingersi fino alla ragione dei fenomeni, si erano condannati alla via senza uscita di cercare cose dietro le cose, nella speranza vana di scoprirne tali che fossero piú maneggevoli dei dati empirici contro cui urtavano le loro analisi. Ma, sia esso immaginario o reale, di qualsiasi termine si può dire quanto Jakobson scrive qui sull'individualità fonica dei fonemi: « Ciò che importa... non è affatto l'individualità... di ognuno di essi, vista in se stessa e per se stessa esistente. Ciò che importa è la loro opposizione reciproca entro un sistema...» (p. 85).
Queste idee innovatrici, verso cui mi portavano le mie proprie riflessioni senza che io avessi ancora l'audacia e l'attrezzatura mentale necessarie per dar loro una forma, erano tanto piú convincenti in quanto Jakobson le esponeva con quell'arte incomparabile che fa di lui il professore e conferenziere piú affascinante che mi sia mai stato dato di ascoltare; il testo che segue ne rende pienamente l'eleganza e la forza dimostrativa. Infatti, merito non ultimo di queste pagine è attestare, per tutti coloro che non ebbero la fortuna di ascoltare Jakobson, che cosa siano stati, e che cosa continuino ad essere nel suo ottantesimo anno di età, le sue conferenze ed i suoi corsi.
[continua ]
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