Claude Lévi-Strauss, “guida che ci segue”, “maestro per una strada da percorrere”, come è stato suggerito in un recente convegno a lui dedicato[1], nasce nel 1908 e muore nel 2009. La sua figura, i suoi scritti, riconosciuti importanti per tracciare i caratteri dell’antropologia del XX secolo, sono sicuramente anche esito delle idee del secolo.[2]
Terminata la formazione universitaria, dopo l’agrégation, comincia ad insegnare ma presto, attratto dall’antropologia,[3] decide di dare una svolta. L’occasione gli è offerta dalla possibilità di ricoprire un insegnamento di Sociologia in Brasile, a São Paulo, città dove si trasferisce nel 1935 e che diventerà la base per spedizioni etnografiche in Amazzonia. Già in quello stesso anno, e poi di nuovo nel 1938, per conto del Musée de l’Homme egli si spinge, infatti, presso differenti gruppi indiani, allora fra i meno a contatto con gli uomini bianchi: i Caduveo, i Bororo, i Nambikwara, i Mundé, i Tupi-Kawahib. L’esperienza di terreno, l’unica da lui effettuata,[4] segna l’inizio della sua carriera di americanista[5] e costituirà il riferimento diretto di vari suoi testi: La vita sociale e familiare degli indiani Nambikwara (1948), un libro molto trascurato dalla critica, Tristi tropici (1955), il testo che più di altri lo ha reso famoso, ma da cui egli ha preso fortemente le distanze;[6] e, infine, Saudades do Brasil (1994a) un lucido, malinconico ritorno in quei luoghi molti anni dopo attraverso le fotografie scattate allora.
A determinare la sua importanza nell’ambito della disciplina sarà però il suo “secondo” viaggio in America, a New York. Di origine ebraica, per non soccombere alle leggi razziali, nel quadro di un programma di aiuto per studiosi europei promosso dalla Fondazione Rockefeller, nel 1941 L-S raggiunge New York per insegnare alla New School for Social Research. Il nuovo ambiente è fra i più stimolanti: grazie ad André Breton, conosciuto durante il viaggio in nave, diventa amico del gruppo surrealista (M. Ernst, Y. Tanguy, M. Duchamp, ecc.); parallelamente, viene a contatto dei nomi più importanti dell’antropologia americana: oltre a Alfred Métraux, conoscerà personalmente i vari allievi di F. Boas e lo stesso maestro, studioso, quest’ultimo, che costituirà per lui uno punto di riferimento costante[7]. A dare una svolta al suo percorso teorico sarà, però, l’incontro con Roman Jakobson, il linguista russo, grazie al quale egli scopre la linguistica strutturale e gli insegnamenti saussuriani. Fra i due studiosi nasce un forte legame di stima, amicizia, e scambi intellettuali[8], destinato ad influire radicalmente sullo sviluppo delle scienze umane con un impatto certamente non ancora chiuso e di cui molti si ostinano a disconoscere o a ridurre la portata[9].
A L-S non sfugge, infatti, il carattere rivoluzionario né della semiologia saussuriana, radicata nella tradizione durkheimiana, e tanto meno quella della distinzione tra fonetica e fonologia operata dalla scuola di Praga[10]: e subito mette in opera i nuovi principi all’interno degli studi della parentela. Il fondamento della famiglia – egli afferma- non ha niente di naturale come a livello superficiale si potrebbe ritenere. Esso è, infatti, costituito da una regola arbitraria, ma universale: il divieto dell’incesto e la conseguente articolazione del gruppo familiare in consanguinei e alleati. Questa regola, che trasforma il rapporto naturale (per cui sono sufficienti tre termini: madre, padre, figlio) in una struttura sociale quadripartita (per l’aggiunta dello zio materno, “donatore” di donne ed espressione della relazione di alleanza), permette di introdurre all’interno della parentela il concetto di scambio[11].[1] “Regarder écouter lire. La semiotica di Claude Lévi-Strauss”, a cura di M. Del Ninno e P. Fabbri. La giornata di lavoro, promossa dal Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica ha avuto luogo a Urbino il 17 settembre 2009 (http://www.etnosemiotica.it/). La prima espressione è di Fabbri (2009), la seconda di Ferraro (2010).
[2] Ecco i suoi riferimenti teorici, dichiarati nel corso di un’intervista: «Marx; Freud, Saussure, Jakobson, Benveniste, Dumézil, plus quelques rudiments de géologie, botanique et zoologie, et une éducation artistique reçue dans une famille qui comptait plusieurs peintres.» (1980, I, 14). Sulla base di varianti a domande simili si possono aggiungere i nomi di J.J. Rousseau, e. M. Montaigne; in campo antropologico, il suo riferimento è certamente il nome di F. Boas.
[3] «Les raisons qui m'ont poussé à devenir ethnologue étaient, je l'avoue, des raisons ‘impures’:je n'étais guère enchanté par la perspective que m'offrait l’agrégation de philosophie et j'ai cherché le moyen d'en sortir» (L-S 1980, I: 16) ; ma anche: «C’est l’occasion inattendue d’enseigner au Brésil qui fit de moi un ethnologue» (L-S 1989: 11). Per aspetti della vita privata di L-S, oltre all’ormai classico L-S – Eribon 1988 vedi Bertholet 2003.
[4] «Je me suis reconnu très vite comme homme de cabinet plutôt qu’homme de terrain» (L-S - Eribon, 1988: 66, trad. it. 70) Contro la tendenza anglosassone, che attribuisce un carattere taumaturgico all’esperienza di terreno, L-S non manca di ristabilire il suo valore puramente strumentale (vedi il seguito dell’intervista).
[5] Al riguardo si veda Castro 2005. Gli studi e le raccolte etnografiche fatte da L-S in America hanno costituito lo spunto per una grande esposizione, al Musée de l' Homme dal 10 ottobre 1989 al 24 aprile1990: “Les Amériques de Claude Lévi-Strauss”.
[6] «Tristes tropique est un libre qui a été écrit en quattre mois, à la va-comme-je-te pousse» (L-S 1984b: 94); e ancora: «J’étais convaincu que je ne ferais jamais ce qu’on appelle une carrière. J’ai rompu avec mon passé, reconstruit ma vie privée, et j’ai ecrit Tristes Tropiques que je n’aurais jamais osé publier si j’avais été engagé dans une compétition quelconque pour une position universitaire» (Eribon-Lévi-Strauss, 1988: 80).
[7] Come è noto, i testi di L-S sono disseminati di apprezzamenti positivi verso Boas. Nell’intervista con Eribon (trad. it:60-64), L-S ricorda la sua critica al razzismo e il suo riconoscimento del carattere inconscio delle leggi che regolano il linguaggio.
[8] La loro analisi a quattro mani di “Les Chats” di C. Baudelaire (vedi L-S 1962c) è oggi celebrata in tutte le antologie scolastiche. Significativa appare anche la loro presenza “speculare” alla Conference of Anthropologists and Linguists (Indiana University, 1953). Oltre che nella “Preface” a Six leçon sur le son et le sens (Jakobson 1976) L-S ricorderà in più occasioni l’importanza del suo incontro con Jakobson, tanto che l’argomento ha finito col diventare una domande di rito in quasi tutti i suoi entretiens (si veda in particolare L-S - Eribon 1986: 66-69, o l’incisivo Henaff 2004a: 90).
[9] A parte la sua tenuta stretta in area antropologica (Héritier 1999), lo strutturalismo di L-S, infatti, appare oggi da una parte alla base dell’approccio etnosemiotico che si fonda sulle sue acquisizioni; dall’altra si innesta in quell’approccio neuroscientifico che incontra un credito sempre crescente. Circa il disconoscimento dell’impatto semiotico, certamente ampiamente diffuso, vedi in particolare Maurice Bloch (2008: 20).
[10] La cui incomprensione, da parte di molti antropologi, occorre dirlo, permane ancora oggi. L-S lamenta questo dato nel colloquio con Hénaff (2004: 90) ricordando che, nonostante che il linguista americano K. Pike abbia dato risalto alla distinzione generalizzandola attraverso la famosa opposizione etic/emic, i due termini sono entrati nell’uso con valori capovolti, con i prevedibili esiti di fraintendimento.
[11] A partire dalle considerazioni di M. Mauss sul dono, L-S incorpora progressivamente il concetto di scambio in una concezione semiotica più generale, che oggi può certamente apparire elementare: la proposta di interpretare la società nel suo insieme in funzione di una teoria della comunicazione articolata in tre livelli: comunicazione delle donne tra i gruppi, comunicazione dei messaggi, comunicazione dei beni e servizi. Abbozzata nel paragrafo conclusivo delle Strutture elementari della parentela (1949: 631-636), tale concezione è espressa in modo espanso nel cap. V di Antropologia strutturale (1958a: 100). Circa il ruolo dello zio materno vedi L-S 1973b.